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Responsabilità civile sanitaria: quando il mancato consenso è un danno risarcibile

Immagine del redattore: Giulio CiabattiGiulio Ciabatti


In caso di danno alla salute, è sempre il paziente che deve provare di non aver ricevuto un adeguato avvertimento delle possibili complicanze, e deve anche dedurre che, se ne fosse stato informato, non si sarebbe sottoposto all’intervento o alle terapie suggerite dal medico.


Nell’ipotesi di consenso informato mancante, o incompleto, invece, il risarcimento spetta – anche in assenza di danni alla salute – quando risulta che il paziente, se avesse ricevuto le informazioni adeguate e necessarie, non avrebbe acconsentito al trattamento e avrebbe compiuto una scelta diversa: la lesione dell’autodeterminazione per mancanza del consenso informato è un danno in sé.


Ecco perché senza consenso informato spetta sempre il risarcimento danni. Quando, invece, il consenso è stato rilasciato, occorre distinguere e considerare l’evento lesivo che si è prodotto sulla salute del paziente e la sua ricollegabilità, in termini di causa-effetto, alla condotta del medico che ha eseguito il trattamento.


Consenso informato: quando ostacola il risarcimento dei danni alla salute?


Una recente sentenza del tribunale di Reggio Emilia ha applicato ad un caso concreto i principi generali che abbiamo indicato. Una signora aveva fatto un’operazione chirurgica al seno, ma l’intervento non aveva avuto l’esito sperato: una mammella era rimasta più grande dell’altra, ed era posizionata in maniera diversa. La differenza era vistosa. Così la donna ha agito contro il centro medico che aveva eseguito questo intervento di mastoplastica, ma la decisione del giudice non è stata favorevole.

La sentenza ha rigettato la domanda risarcitoria osservando che «spetta anzitutto al paziente provare il nesso causale tra l’insorgere della patologia e la condotta del medico; solo in un secondo momento, laddove il paziente abbia dato prova di tale ciclo causale, il sanitario deve provare il pieno rispetto delle leges artis o comunque delle best practice, evidenziando la causa non imputabile che gli ha reso impossibile fornire la prestazione corrispondente ai canoni di professionalità dovuti».

Fin qui, il giudice ha rilevato che in caso di violazione della diligenza dovuta è il medico che deve discolparsi, provando di aver adempiuto alla propria prestazione secondo gli standard di qualità professionale richiesti dal caso; ma il punto a sfavore della donna operata consisteva nel fatto che la complicanza insorta era stata considerata nel consenso informato, che prevedeva la possibilità di un’asimmetria del seno post-intervento, dovuta ad una «contrattura capsulare»: e questa avvertenza le era stata fornita. Inoltre, e prima ancora di ciò, mancava la prova decisiva del fatto che l’inestetismo lamentato fosse riconducibile ad una colpa del medico che aveva praticato l’intervento. (Fonte LPT)


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